Didattica e autismo: troppi insegnamenti inutili

Ho un figlio di 18 anni che si accinge a frequentare l’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado. Posso quindi tirare le somme di un intero periodo scolastico, intenso, felice, fortunato (perché ho quasi sempre incontrato docenti e compagni deliziosi), ma colmo di lacune, le quali, sinceramente, hanno intaccato parecchio il percorso verso l’autonomia di mio figlio Ares.
La didattica in generale, ha un valore incalcolabile, sia chiaro, e la scuola (se viene gestita bene l’inclusione) è semplicemente insostituibile. Ma la quantità di argomenti inutili, Signori e Signore, che ho affrontato in tutti questi anni di studio, fa terribilmente a pugni con le vere esigenze di un autistico grave. Argomenti che sarebbero potuti essere sostituiti con altri, di gran lunga più interessanti e vantaggiosi per un alunno autistico.
E’ chiaro che prima di affrontare questo delicato argomento va detto che ogni bambino è diverso e che spesso alcuni temi, apparentemente inutili, interessano talmente tanto all’alunno autistico, che già questo diventa un motivo per approfondirlo, per smembrarlo e quindi insegnarlo con dedizione.
Qui però voglio parlare della maggioranza dei casi, dei bambini e ragazzi gravi, con ritardo cognitivo o comorbidità varie, che entrano a far parte del mondo scolastico e si ritrovano risucchiati da materie e argomenti inefficaci, infruttuosi e inadatti alla loro disabilità.

La scuola primaria:

Questo è il periodo più importante per qualsiasi allievo, autistico e non. In questo lasso di tempo si imparano, o almeno si dovrebbero imparare, le basi della didattica futura: leggere, scrivere, i primi passi della matematica, la risoluzione di problemi, ecc. E’ anche questo il periodo per introdurre i primi paragrafi, inserire la comprensione del testo, l’analisi grammaticale ed altri temi che sostengono il linguaggio, la comunicazione, il ragionamento logico, ecc.
Sono i 5 anni più importanti della vita scolastica di un bambino, anni, a volte sprecati, perché l’allievo autistico, sovente, arriva alla scuola media, e addirittura al Liceo, senza saper leggere e scrivere. Come sia possibile, non si sa.
Fatto sta che si perde tempo provando ad insegnare il corsivo, il Big Bang, gli aerogrammi, le prime civiltà antiche, lo studio della preistoria, invece di concentrarsi sull’ortografia, la sintassi, il linguaggio, conoscere i propri compagni, l’autonomia in classe: lavorare da solo, gestire il proprio zaino, riconoscere i quaderni…

I compiti:

Dedico due parole a questo argomento perchè mi sta davvero a cuore.
L’assegnazione dei compiti, soprattutto nel caso dei disabili, deve avere un preciso scopo, i compiti non devono essere troppi ed è assolutamente meglio se non ci sono affatto. Lo sforzo che un allievo autistico fa durante la lezione a scuola (se teniamo conto non soltanto dello sforzo mentale, ma anche di quello sensoriale) è il doppio di quello di un allievo neuro tipico.
Il tempo che quindi rimane nella giornata dovrebbe essere impiegato in attività che possono anche riguardare gli argomenti trattati in classe, ma in chiave diversa dalla mera esecuzione di un esercizio.
Esistono diversi studi, fra cui il Pirls 2016, da cui si evince che i bambini a cui vengono assegnati pochi o nessun compito, ricevono punteggi superiori, nell’ambito della capacità di lettura, rispetto agli alunni che frequentano classi in cui il carico è superiore.
Non serve, quindi, assegnare compiti, lasciate stare!
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La scuola secondaria di primo grado

Ecco, da qui in poi cominciano i veri disastri.
Partiamo da un presupposto: un allievo autistico, ameno che non sia un ragazzo Asperger o ad alto funzionamento con un livello cognitivo alto e uno spiccato interesse per le lingue, non ha bisogno di imparare un idioma straniero. Lo spazio che occupa questa materia, qualche volta, dovrebbe essere usato per socializzare, creare spazi di condivisione del lavoro, di inclusione e contatto con altri compagni di classe. La stessa cosa vale per Religione, non me ne vogliate, ma: a cosa serve che Ares sappia la storia della religione cattolica se non capirà mai il senso della vocazione, il significato dell’ostia, la morte e la resurrezione di Cristo. Ma soprattutto, nella vita reale, a cosa gli serve?
Il programma della classe deve però continuare? E fatelo continuare! Ma al alunno disabile fategli fare altro: è molto più produttivo per lui.
In questo periodo, infatti, ho perso tantissimo tempo nel cercare di insegnare ad Ares i dialoghi in francese, la storia della musica (invece di imparare a suonare uno strumento), i concetti di reticolo geografico e di coordinate geografiche, le migrazioni, tutti argomenti di cui Ares manco ricorda una virgola e che, ahimè, non influiranno, in nessun modo, nella sua vita futura.
E’ anche questo il periodo in cui ho avviato, insieme al mio supervisore A.B.A., un programma fantastico di socializzazione con i compagni di classe di Ares, il quale diede tanti e bei frutti. Un programma dove si parlava di emozioni: rabbia, tristezza, allegria e di cui ho parlato QUI, qualche tempo fa. Ma questa, ovviamente, è stata un’idea mia, una mia iniziativa perchè ho la fortuna di essere seguita da operatori e psicologi competenti e la scuola che frequentava Ares era disponibile e aperta a qualsiasi tipo di intervento per facilitare l’inclusione.
Ma quando ciò non accade e abbiamo di fronte un ragazzino di terza media che ancora non sa usare bene la matita? E’ meglio ricercare materiale per insegnargli l’angolo concavo e convesso? I primi assiomi della geometria? O è meglio insegnargli come si impugna una matita? Semplicemente perdiamo del tempo prezioso, ripeto, perdiamo del tempo prezioso.
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La scuola secondaria di secondo grado

Qui veramente accade il peggio del peggio. A prescindere dal tipo di Liceo che abbia scelto il genitore, i 5 anni di frequenza di quest’ordine scolastico dovrebbero essere mirati per consolidare alcune competenze lavorative. Subito dopo, infatti, l’allievo autistico, se è in grado di farlo, si iscriverà all’università, oppure, come nella maggior parte dei casi, finirà in un centro diurno, proverà a fare qualche lavoretto part time pagato male, o alla peggio finirà fra le mura di casa, come un orso in gabbia, ad aumentare le stereotipie e le ossessione in un lockdown di infinito dolore e strazio per lui e per i familiari.
Il tempo di questi lunghissimi 5 anni dovrebbe essere impiegato così:

  1. valutazione delle competenze dell’allievo autistico
  2. programma personalizzato per colmare le lacune del passato scolastico: scrivere meglio, imparare a fare una firma, leggere, comprendere, addizione, sottrazione
  3. lavorare sulle autonomie: organizzare piccoli mercatini dove si possa insegnare in maniera concreta l’abilità della spesa
  4. inserire tanti laboratori che possano insegnare o che possano scartare piccoli mestieri: cucina, pittura, cucito, orto, disegno, informatica, fotografia, recitazione…
  5. lavorare sulle abilità sociale più importanti: il saluto, la gestione del denaro, i simboli della vita quotidiana: bagno di maschi, bagno di femmine, uscita, stop.
  6. lavorare, infine, sull’aspetto che deve avere l’alunno quando uscirà dalla scuola perchè con l’aumento dell’età aumentano anche le aspettative della società nei confronti delle persone autistiche, e quindi la cura personale, il saluto, ecc, diventano abilità essenziali per riuscire ad integrarsi.

Così dovrebbero essere impiegati questi 5 preziosi anni, invece si impiegano così:

  1. Lavorando in vano affinché l’allievo autistico rimanga buono in classe (gesto inutile perchè non gli interessa nulla dell’argomento trattato e di conseguenza si annoia), Ma la regola dice che deve stare in classe, e che più sta in classe, più bravo è.
  2. Facendo passeggiate per tranquillizzarlo attorno al palazzo della scuola perchè “è nervoso, non riesce a stare seduto in classe, ecc”
  3. Lottando a suon di lettere per cercare di trovare una soluzione con la cooperativa incaricata di portar fuori gli allievi per l’alternanza scuola lavoro “perchè i normo tipici possono uscire da soli ma i disabili vanno accompagnati e chi paga l’assicurazione in quelle ore?”
  4. Realizzando lavori inutili e fini a se stessi durante l’alternanza scuola lavoro, che è già scadente per i ragazzi normo tipici, figuriamoci per i ragazzi disabili, quindi rastrellando, pulendo il cortile dalle erbacce, sistemando libri, quando va bene, altrimenti seduto a prendere un po’ d’aria in attesa del pulmino per andar via.
  5. Colorando mele e figure geometriche in una sala vuota e isolata perchè “c’è meno rumore e cominciava a dare fastidio ai compagni, che hanno un esame domani”

Ecco, gli anni passano così, forse ci sarà qualche eccezione, ma la maggioranza passa gli anni cercando disperatamente di imparare argomenti inutili che nulla hanno a che fare con le necessità reali di un giovane ragazzo autistico, che di lì a poco affronterà il mondo da adulto.
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Qualcuno di voi potrebbe dire: ma esiste il P.E.I., si può tranquillamente stabilire tutto con il P.E.I. Ma la questione, purtroppo, non riguarda soltanto la stesura del P.E.I. Il GLHO decide, certo, un programma specifico e personalizzato, ma il problema è a monte. La programmazione didattica del sistema scolastico nazionale prevede che anche i disabili devano frequentare e seguire le materia dell’anno in corso, che, detto così, sembra lecito e giusto, ma la questione è: ha senso che il disabile frequenti la stessa scuola dei normo tipici se poi non impara quello che VERAMENTE gli serve?
Perchè un disabile grave deve stare seduto in classe alla pari del suo compagno normo tipico se non capisce una mazza di quello che stanno dicendo? Non è quindi meglio che le ore di scuola vengano usate per insegnare un’abilità, una competenza?
Perchè usare sofisticati programmi comportamentali affinchè il disabile rimanga per forza in classe se poi non si lavora per creare piccoli gruppi inclusivi dove convergano il lavoro della classe e quello personalizzato?
Vi racconto un fatto: durante la quarantena, il professore di Produzione Vegetale nel liceo agrario di Ares ha coinvolto tutti i disabili della classe in un gruppo di lavoro sull’orzo. Erano piccoli gruppi di ragazzi normo tipici con un disabile ciascuno. I normo tipici svolgevano la parte più astratta e corposa della ricerca, mentre ai disabili è stato assegnato un compito a seconda delle proprie caratteristiche: un ragazzo ha fatto la spesa, Ares ha invece cucinato in diretta le zucchine con l’orzo, un’altra ha fatto l’orzo dal vivo.
Ecco, questo è il lavoro che bisognerebbe fare nelle scuole: adeguare il programma della classe alle esigenze e competenze del disabile.
Laddove invece non sia possibile, perchè non lo consentono gli argomenti del programma, allora con il disabile si fa altro. Io capisco quanto potrebbe stonare dire: “è meglio che il disabile stia fuori dalla classe a fare un corso di teatro”. Ma se rimane in classe, cosa fa? Perchè lo devo tenere dentro a priori? Cosa guadagna? Che senso ha? L’inclusione non significa che tutti stiano insieme. L’inclusione è riuscire a lavorare insieme!
La formazione per il futuro, che è alla base degli obiettivi della scuola, deve andare di pari passo con il livello cognitivo di ogni allievo. Gli obiettivi degli alunni, quindi, devono essere diversi e la scuola perciò, deve adeguarsi e organizzarsi.
Io non credo che un istituto scolastico sia peggiore di un altro perchè i loro disabili arrivano a scuola e subito si mettono a impastare biscotti, a cucinare pizze, a dipingere quadri, a fare letti, ad apparecchiare tavoli.
Vogliamo o no contribuire DAVVERO e seriamente alla preparazione delle future persone disabili adulte, che nella realtà invece spariscono dalla circolazione e rimangono nascoste, alienate, senza punti di riferimento se non quello dei genitori stanchi e sempre più anziani e soli?

Chiudo con un mio umile consiglio:

Se siete dei genitori e riuscite a bypassare alcuni argomenti inutili durante il percorso scolastico dei vostri figli, fatelo e impiegate il tempo in abilità che li arricchiscano davvero. Cercate di inserire nei P.E.I. meno esercizi sulle potenze e più laboratori. Non badate ai voti, ameno che non abbiate la certezza che il livello cognitivo di vostro figlio, seguendo il programma della classe, gli consentirà di inserirsi nel mondo lavorativo senza difficoltà.
Se siete invece docenti, assistenti alle autonomie, presidi, e riuscite a concentrare il piano didattico dei disabili, che frequentano la vostra scuola, nelle competenze che realmente agevolano la loro vita futura, sappiate che state contribuendo ad un modo migliore e civilmente più equo per tutti. La società ne ha davvero bisogno!

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