Autismo. Non bisogna lavorare su tutto

 

 

 

Sento il bisogno di scrivere queste righe perché, da quando ho aperto questo Blog, sento sempre più spesso genitori che chiedono come lavorare, come intervenire su questioni, che, consentitemi, a me sembrano davvero insensate.

Ne parla una che lavora 24 su 24 e se la giornata avesse 30 ore lavorerebbe 30 ore su 30. Facciamo qualche esempio:

“Ciao Bàrbara, mio figlio ha iniziato a muovere una mano con insistenza, lo fa soprattutto quando è nervoso, è fastidiosissimo, come posso fare per togliere questa cosa?”

Ciao Bàrbara, la mia bambina, quando cammina per strada, strizza un occhio, forse sente ansia, ma sinceramente la guardano malissimo tutti, vorrei togliere questa stereotipia”

Ciao Bàrbara, mio figlio ha 20 anni e ripete sempre un gesto prima di uscire di casa: deve ripetere il passo e toccare la maniglia della porta, come posso convincerlo a fare a meno di questo rituale fastidioso?”

La maggior parte delle volte, indagando un pochino, scopro tantissime lacune comportamentali in queste persone autistiche, scopro che dal punto di vista dell’autonomia non sanno fare quasi nulla, scopro che non scrivono, che leggono soltanto le sillabe in prima media, e che ancora portano il pannolone a 20 anni.

Quindi va da sé che mi meravigli. Cosa può importare la ripetizione di un gesto se alla base non si è lavorato sulle abilità più importanti. Eppure capita, e capita soprattutto perché alcuni gesti, alcune manie, danno molto più fastidio alle persone che stanno attorno alla persona autistica, piuttosto che alla persona autistica in sé.

 

Una delle eredità che mi ha lasciato e mi sta lasciando l’autismo, da quando è entrato nella mia vita, è la necessità di lavorare su me stessa. Sono, di natura, una persona precisa, chi mi conosce lo sa bene, arrivo sempre con largo anticipo agli appuntamenti, organizzo ogni attività mesi prima e difficilmente qualcosa mi coglie impreparata.

Da quando Ares ha una diagnosi di autismo ho dovuto però imparare a chiudere un occhio, a consentire alcune stranezze, ho persino imparato ad amarle quelle manie e bizzarrie di Ares, perché fanno parte di lui. E penso che il lavoro che dobbiamo fare, quando ci capita l’autismo in casa, è anche questo: riuscire a concentrarci sulle cose VERAMENTE importanti e lasciar stare quelle che, se andiamo a fondo, scopriamo che non incidono affatto nello scorrere sereno della vita quotidiana, ma che invece danno fastidio a noi.

Il problema, ho notato, va oltre l’accettazione dell’autismo, quindi non si tratta di genitori che non hanno ancora accettato la diagnosi del proprio figlio, ma subentra un desiderio, a volte innominabile, di normalizzare, di uguagliare il proprio figlio agli altri, cosa, che sappiamo bene, è totalmente impossibile.

Attenzione, anch’io lavoro a volte su alcune abilità apparentemente insignificanti, come: far dire ad Ares “salute” quando sente uno starnuto, oppure “bravo” quando viene lodato un compagno davanti a lui, ma non mi preoccupo affatto quando fa sempre un giro attorno alla sedia prima di sedersi a tavola, quando aspetta che io disponga il mio piede per salire all’unisono le scale, quando lo vedo camminare senza toccare le righe, oppure quando lo vedo muovere una mano come se volesse raggiungere un qualcosa di invisibile per me e che vede soltanto lui.

Tutto ciò forma parte di quello che è Ares e ci lavorerei sopra soltanto se diventasse un’ossessione: se non riesco ad uscire di casa perché ripete il passo 100 volte prima di varcare la soglia della porta, se indossa e toglie 200 volte il pigiama prima di mettersi al letto.

Non basta una vita, e forse nemmeno due, per rendere leggermente autonoma una persona autistica. Da quando nasce fino all’età adulta, sono infinite le abilità da far emergere e sono infinite le conoscenze da trasmettere. 

E’ un dovere, per noi, genitori e insegnanti, concentrarci sulle cose importanti.