Terapista del proprio figlio. Sì o no?

 

 

Ho sentito diversi pareri prima di esporre la mia idea su questo argomento: ho ascoltato terapisti, supervisori, mamma e papà che svolgono il ruolo di terapisti dei propri figli. Non volevo che il mio fosse un parere corredato dalla mia sola esperienza, così ho potuto arricchirla con opinioni diverse.

Dunque, vi dico subito: io non penso che avrei mai potuto fare la terapista di Ares: questione di carattere personale. Sin dall’inizio mi sono affidata a professionisti. Penso che, appunto, la terapia A.B.A. oppure altre (in questo caso mi riferisco a quella che ho scelto io) vada eseguita da professionisti, punto!

A volte però capita, che il genitore diventi esso stesso un professionista, ottenga le certificazioni giuste e diventi il terapista del proprio figlio. Giusto o sbagliato? 

Non voglio essere ipocrita: se non avessi potuto permettermi il pagamento di 40 ore settimanali di terapia quando ho ricevuto la Diagnosi di Ares, probabilmente sarei diventata io la terapista di mio figlio. Per fortuna, non è andata così, perchè quasi certamente, avrei retto i primi anni, ma poi avrei mollato per via dello stress. Chi lo sa..!

Tutto ciò non ha però escluso che io sia sempre stata un genitore INFORMATO. E’ sempre meglio un genitore informato piuttosto che uno che non sa nulla di quello che stanno facendo i terapisti con il proprio figlio nella stanza accanto. Di fatto io mi sono sempre preoccupata per conoscere il più possibile la terapia che segue Ares, lasciando lavorare i professionisti certo, ma rendendomi sempre conto, via via che il lavoro si svolgeva, con chi avessi a che fare, se il percorso fosse giusto, se i progressi fossero o meno in linea con i programmi, ecc.

Consiglio spesso ai genitori che mi scrivono di fare qualche corso di preparazione per capire cosa significhi la terapia che poi dovranno pagare di tasca loro. Ecco, a proposito di tasca: una delle ragioni per le quali i genitori, spesso, diventano terapisti, è proprio per supplire alle ore che non riescono a pagare, oppure per risparmiare e poter far loro il lavoro che, altrimenti, diventerebbe VERAMENTE dispendioso. I prezzi delle terapie comportamentali, come sappiamo tutti, non sono bassi, anzi.

Proprio in funzione del fatto che le terapie costano e che i bravi terapisti e supervisori certificati non si trovano con tanta facilità, proprio perchè so quanto è costoso intraprendere un percorso terapeutico serio, proprio per questi motivi ho aperto il mio Blog: per aiutare, con gli strumenti da me imparati in più di 15 anni, tantissimi genitori che non possono proprio permettersi la terapia comportamentale. Per dire loro: “Guardate che con la Token Economy, se non vuole lavorare a scuola, potreste aiutarlo”. Per dire loro: “Guardate che una storia sociale è perfetta per insegnargli ad indossare la mascherina”. Per dire loro: “Guardate che se è aggressivo c’è sempre una ragione, e se scrivi quel che accade prima e dopo, potresti scoprirlo”. Da mamma a mamma, come se chiacchierassimo in una serata fra amici.

E’, però, giusto che una madre o un padre assuma il ruolo del terapista del proprio figlio? Quali sono i pro e i contro?

Dipende. Credo che se riesce a scindere un ruolo dall’altro, allora sì, potrebbe funzionare. Diversamente, cioè, senza separare il terapista dalla madre (o dal padre), credo che sarebbe semplicemente deleterio, per lei/lui, per il figlio e per l’intera famiglia.

Gestire la frustrazione degli insuccessi, non fare terapia in un momento di relax al parco, educare in quanto madre, in un momento in cui “fare il terapista” stonerebbe, non penso sia una prerogativa di molti. Ci vuole il giusto equilibro (mi diceva una mamma): sapere quando far subentrare il terapista e capire quando godersi il proprio figlio.

Ho conosciuto personalmente diverse mamme terapiste: alcune molto stressate, al limite del crollo e altre un po’ più rilassate, ma che pagavano un prezzo altissimo nel tentativo di non trascurare il marito e gli altri figli. Diciamo che non è un ruolo per tutti e che quindi bisogna stare molto attenti.

Le cause, quindi, che portano un genitore a diventare terapista del proprio figlio possono essere diverse. L’unica causa, secondo me, che non deve mai prevalere è quella di pensare di essere l’unica persona in grado di farlo. Delegare ad altri compiti importanti, come quello di migliorare la condizione del proprio figlio tramite una terapia, significa affidarsi, pienamente, a quello che fa la persona che hai scelto. Seguire, quindi, le direttive che segna un altro, capire che non sei imprescindibile, unico e irripetibile.

Il mio consiglio quindi è questo: se riesci a delegare il ruolo del terapista, fallo! Tanto noi genitori siamo terapisti sempre: quando dobbiamo convincere i nostri figli a svegliarsi per andare a scuola, quando dobbiamo fare con loro i compiti, quando dobbiamo insegnar loro una competenza, quando dobbiamo convincerli a mangiare una nuova pietanza. Riuscire quindi a spostare il peso maggiore dell’insegnamento ad un’altra persona per poter “non fare nulla” il resto delle ore che rimangono nella giornata (si fa per dire), è proprio quello che ci vuole.

Non è la stessa cosa, credetemi, educare (ruolo del genitore), seguendo i principi di una scienza che applicano altri dentro casa tua (oppure a scuola), piuttosto che applicarla te senza altro supervisore che te stesso. Anch’io, da madre, insegno ad Ares quotidianamente le abilità sociali seguendo le direttive di un piano predisposto precedentemente, ma, dinanzi alla minima difficoltà ho un gruppo di esperti che possono intervenire e correggere il tiro. 

Se riesci, quindi, a permetterti un terapista e un supervisore, che diventino un punto di riferimento serio e duraturo, fallo! Ne vale la pena. Se non ci riesci, risparmia e formati, diventa quindi un professionista. Ma, attenzione, valuta giorno per giorno il tuo stato psicofisico, guardati attorno, fai in modo di non trascurare la tua famiglia e ricordati sempre che la terapia è nata per migliorare i nostri figli, non per cambiarli.